IIT, tecnologie per non vedenti poco accessibili a chi ne ha bisogno

IIT, tecnologie per non vedenti poco accessibili a chi ne ha bisogno

GENOVA. 11 AGO. Il team di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia guidato da Monica Gori ha recentemente pubblicato sulla rivista internazionale Neuroscience and Behavioural Reviews un lavoro che evidenzia la mancanza di integrazione tra la ricerca e i veri bisogni delle persone affette da disabilità visive, tralasciando completamente i bambini.

Il progetto europeo ABBI (Audio Bracelet for Blind Interaction) coordinato dalla Gori e che vede coinvolti 5 centri in tutta Europa tra cui l’istituto per bambini non vedenti David Chiossone di Genova, si basa proprio sul dialogo tra ingegneri e neuroscienziati. Scopo del progetto è la messa a punto di un braccialetto (chiamato ABBI) progettato per la riabilitazione motoria dei bambini non vedenti o ipovedenti.

Nell’articolo dal titolo “Devices for visually impaired people: high-technological devices with low user acceptance and no adaptability for children”, il gruppo guidato dalla Gori ha analizzato i 21 più evoluti dispositivi di aiuto alla visione, sviluppati dagli anni ’70 a oggi. Quasi tutti traducono immagini in stimoli tattili o uditivi, senza fornire alcun feedback delle azioni e dei movimenti compiuti da chi li indossa. Questo è uno dei limiti maggiori. I problemi di visione compromettono infatti un’altra serie di capacità cognitive, soprattutto quando si manifestano fin dalla nascita. L’utilizzo dei dispositivi presi in esame nel lavoro dei ricercatori IIT, pone ulteriori difficoltà ai bambini come la necessità di combinare stimoli provenienti da sensi diversi, la richiesta di periodi di attenzione prolungati, non adeguati al livello di sviluppo del bambino non vedente e tempi di training all’uso troppo lunghi.

Dei 21 sistemi presi in considerazione, solo 3 strumenti sono stati commercializzati, di cui uno negli anni ’70, mentre 4 sono applicazioni per smartphone. Sui bambini sono stati testati solo due sistemi di lettura, installabili su smartphone, nonostante sia ben noto che l’assenza di visione nei primi anni di vita compromette lo sviluppo delle capacità motorie e di efficaci interazioni sociali. Inoltre nessuno di questi dispositivi è stato sottoposto a studi clinici che ne misurino l’efficacia su gruppi sufficientemente numerosi di pazienti.

Intanto ABBI ha già iniziato la prima fase di studi clinici per diventare un dispositivo medico ed essere commercializzato. “Per arrivare a dispositivi efficaci e disponibili a tutti è necessario stabilire un dialogo produttivo tra ingegneri e neuroscienziati, in modo da progettare strumenti che rispondano alle effettive necessità delle persone con problemi di visione, con ABBI stiamo seguendo questa strada, imparando dagli errori commessi in passato” spiega Monica Gori, e aggiunge “il punto di partenza sono stati i bambini e i loro terapisti dell’Istituto David Chiossone”.

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